“CHI L’HA DETTO CHE LA
SCUOLA
NON CI PIACE?”
EQUIPE TERRITORIALE DI TRIESTE
Adriana Monti
Docente Scuola Media “N. Sauro”
Muggia, Trieste
Neanche a noi la scuola piaceva
sempre. Alzarsi tutte le mattina di
buonora, correre a scuola, restare
seduti fissi nel banco per tutte e cin-
que le ore di lezione, non parlare se
non interrogati, copiare dalla lava-
gna, riempire di esercizi quaderni e
quaderni. La professoressa stava
seduta in cattedra, in alto sulla pre-
della, faceva l’appello tutte le matti-
ne, spiegava la sua lezione, dava i
compiti, correggeva i compiti, inter-
rogava. Quello della classe e quello
dei professori erano due mondi
diversi, che convivevano nella stessa
aula ma che si sfioravano solo mar-
ginalmente. I ruoli di ciascuno erano
netti, condivisi, immutabili. Il resto
del mondo restava fuori dalla porta,
non c’era dialogo o, forse, noi non
supponevamo che ce ne fosse la
possibilità e facevamo fatica a pen-
sare ai professori come a persone
normali, come i nostri genitori, per
esempio: c’era, ovviamente, qualco-
sa di più della differenza generazio-
nale a bloccarci. E anche quando i
professori scendevano dalla loro cat-
tedra e dalla loro predella e dimo-
stravano di avere cuore e sensibilità,
la diffidenza restava sempre: non era
proprio quello il loro compito, a loro
si chiedeva di insegnare bene e
basta, quello dovevano fare. Non
importava che i loro alunni alla mat-
tina avessero lo stomaco attorciglia-
to all’idea di andare a scuola e di
essere interrogati, faceva parte del
gioco, che ci si sentisse a disagio, e
che si superasse il disagio era segno
di crescita: ma questo non doveva
interessarli.
Quanto siano cambiate da allora le
scuole e i rapporti tra insegnanti e
alunni in effetti non si sa. Si è con-
vinti che siano cambiate, ma se le
cose fossero realmente e profonda-
mente mutate, non sarebbe stato
necessario proporre un’iniziativa
come “Star bene studiando bene”,
per esempio. Si sentono ancora leg-
gende metropolitane tramandate
evidentemente dalle esperienze
negative dei genitori: la scuola non
piace ma ci si deve andare, è un
male necessario (e poi forse neanche
tanto necessario); degli insegnanti
non ci si può fidare, ti fregano e se
puoi devi fregarli a tua volta, la cosa
più importante è la promozione e il
resto non conta, eccetera, eccetera.
Sto forse esagerando, ma non tanto:
il messaggio che passa, anche in
modo sotterraneo, è questo.
Dall’altra parte però in questo
momento gli insegnanti si trovano di
fronte a ragazzi molto diversi da
come erano loro, e allora non è più
sufficiente cambiare prospettiva: i
giovani oggi hanno valori differenti,
modi differenti di porsi, caratteristi-
che differenti. Oggettività, raziona-
lità, rispetto dell’ordine erano i valo-
ri che venivano inculcati a noi; sog-
gettività, emotività e sentimento, dif-
ficoltà a rispettare regole che per
loro non hanno senso, le caratteristi-
che delle giovani generazioni che ci
troviamo di fronte. “Non hanno
voglia di fare, sono passivi, sono
molto diversi da quello che eravamo
noi, non hanno più il senso del
dovere, vogliono tutto e subito, sono
superficiali...” sono alcune delle
caratteristiche che gli adulti attribui-
scono ai ragazzi d’oggi.
Ma ad un’analisi appena appena più
approfondita si scopre che questa
generazione di giovani è alla ricerca,
spesso inconsapevole, di un senso;
che colloca questo senso nella rela-
zione, e che ha bisogno di figure di
riferimento affettivo sulle quali poter
contare. E’ cambiata infatti la cultura
e la società intorno a noi: si sono
indebolite le reti di protezione dei
vicini, del “cortile”, aumenta la soli-
tudine, tutti hanno sempre tante cose
da fare e ... e spesso poco tempo e
poca attenzione da dedicare loro. E
a scuola ?
Qualcuno ha detto, e anche noi
abbiamo constatato nella nostra
esperienza, che la scuola spesso
definita un “vivaio di relazioni
umane”, in realtà è molto spesso un
deserto relazionale. Lo possiamo
constatare direttamente perché le
relazioni tra le varie componenti
della scuola (insegnanti, alunni, capi
istituto, genitori, personale Ata) non
sempre funzionano: si parla di soli-
tudine relazionale e di isolamento
istituzionale, in cui gli studenti, i
docenti, i dirigenti, ciascuno nel pro-
prio ambito e nella propria specifi-
cità, sembrano monadi isolate anzi-
ché, come sarebbe invece più logi-
co, risorse che mettono insieme le
loro capacità, le loro competenze, le
loro energie in vista del raggiungi-
mento di uno scopo comune, della
propria crescita e, di conseguenza,
del benessere proprio, oltre che di
quello degli altri, soprattutto dei gio-
vani. E ciò si verifica anche rispetto
alle altre istituzioni del territorio con
cui le persone della scuola condivi-
dono compiti pedagogici e con le
quali la scuola è chiamata a risolve-
re problemi sociali che stanno diven-
tando sempre più complessi.
Nelle relazioni quindi si fatica a tra-
sformarsi dall’”io”e dal “tu” in un
“noi”: è faticoso e percepito come
rischioso il passare da un’ottica
lineare ad una visione circolare:
implica un cambiamento di orizzon-
ti, e quindi di mentalità. Non si con-
sidera che il comportamento dei
ragazzi è anche una risposta al com-
portamento dell’insegnante e agli
input che egli invia, mancano gli
strumenti per “vedersi nell’altro”, la
capacità di leggere il comportamen-
to dell’altro come retroazione del
proprio operato.
Oltre a ciò esistono altri fattori con
cui gli insegnanti devono rapportarsi
e che Andrea Canevaro ha più volte
e da molto tempo ben messo in rilie-
vo: egli segnala come fattori di disa-
gio la difficoltà dei bambini a padro-
neggiare la quantità enorme di infor-
mazioni con cui vengono in contat-
to, e quindi ad orientarsi nel mondo;
la “spersonalizzazione”, la richiesta
cioè che si fa loro di adeguarsi a
modelli preconfezionati, di cambia-
re il loro modo di essere, senza pos-
sibilità di continuare in una crescita
di tratti di personalità individuale e
originale (tutti sappiamo quanto
conti per l’ambizione delle famiglie
organizzare la loro vita in modo che
siano “ben preparati” per la vita, non
solo, ma anche quanto spesso gli
adulti offrono loro modelli trasgressi-
vi, presentandoli come comporta-
menti “furbi”); la difficoltà crescente
a vivere la durata, a vivere un tempo
fatto di una capacità di resistenza, di
attesa, dovuto al cambiamento delle
strutture temporali, e alla impossibi-
lità di rielaborare perché si vive
istante per istante. Da ciò deriva
anche che il numero dei bambini
che manifestano difficoltà di appren-
dimento è in aumento: questo disa-
gio consiste nel rapportare le evoca-
zioni in un contesto nuovo, nel rac-
cordare le cose che ha assunto con
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QUADERNI
DI
ORIENTAMENTO