QUADERNI DI
ORIENTAMENTO
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vremmo utilizzare più spesso:
si tratta ancora di un cliché, cioè
di una stringa di parole, ne più né
meno vero, falso o equivoco degli
altri, ma che può produrre effetti
interessanti nelle nostre combina-
zioni di cliché, cioè nelle nostre re-
toriche del “multiculturalismo”, nei
nostri “multiculturalismi”. Perché è
il cliché che ci ricorda che abbia-
mo a che fare sempre con cliché,
che non possiamo che avere a
che fare con cliché. Che i cliché di
poco fa non sono qualcosa di cui
possiamo pensare di liberarci in
un colpo solo, tornando ai “fatti” e
ai “vissuti” delle differenze, perché
queste ultime, in quanto tali, cioè
per rimanere tali e non essere as-
soggettate al medesimo, per non
essere incorporate di volta in volta
dal più forte di turno, non possono
che sfuggirci sempre. E che pos-
siamo accostarle, appunto, solo
attraverso delle rappresentazioni,
delle parole, dei cliché.
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Probabilmente, per acquisire uno
sguardo critico ed efficace nei nostri
percorsi educativi dobbiamo rinun-
ciare all’idea di liberarci una volta per
tutte dei cliché e cercare piuttosto di
combinarli nei modi migliori, cioè in
modi che si lascino sempre di nuovo
smontare e rimontare inmodo inedi-
to. Dobbiamo cioè continuare a usa-
re i cliché (questi e altri), ma senza
ripetere sempre gli stessi cliché.
Come ha scritto Zygmunt Bauman,
il compito che ci rimane infatti, anche
a proposito del “multiculturalismo”
e dei suoi cliché, “non consiste (non
può consistere) nel‘correggere il senso
comune’ e nello stabilire in modo nor-
mativo la rappresentazione autentica
della realtà umana in luogo di quelle
erronee endemiche nel sapere laico.
L’essenza del compito non è restrin-
gere, ma allargare; non selezionare le
possibilità umane degne di essere per-
seguite, ma impedire che esse siano
precluse, compromesse o semplice-
mente perse di vista”.
Anche la nostra (anche quella che
●
stiamo costruendo qui, ora) sarà
dunque una retorica, una storia, né
vera, né falsa, oppure, sia vera che
falsa: “ma il messaggio di questa sto-
ria particolare è che ci sono più modi
di raccontare una storia di quanti ne
sogni il nostro narrare quotidiano, e
ci sono più modi di vivere di quanti
ne suggerisca ciascuna delle storie
che raccontiamo e a cui crediamo, e
che invece ci si propone come l’uni-
ca possibile”.
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Non è certo una lezio-
ne piccola, questa che impariamo
giocando coi cliché.
Davide Zoletto
NOTE
1
A. Schütz,
Lo straniero.
Saggio di
psicologia sociale (1942), in Id., Saggi
sociologici (1971), Utet, Torino 1979.
2
Nell’usare la metafora del cliché mi
rifaccio, almeno in parte, alle modalità
in cui vi fa ricorso Gregory Bateson nel
suo metalogo Dei giochi e della serietà
(1953), in G. Bateson.,
Verso un’ecologia
dellamente
(1972), Adelphi, Milano
20012, pp. 45-51.
3
D. Zoletto,
Gli equivoci del
multiculturalismo
, “aut aut”, 312,
novembre-dicembre 2002, pp. 6-18.
4
A. Dal Lago,
Non persone
, Feltrinelli,
Milano 1999.
5
M. Aime,
Eccessi di culture
, Einaudi,
Torino 2004.
6
U. Fabietti,
L’identità etnica. Storia di un
concetto equivoco
, NIS, Roma 1993.
7
A. Sayad,
La doppia assenza. Dalle
illusioni dell’emigrato alle sofferenze
dell’immigrato
(1999), Cortina, Milano
2002, p. 339 sgg.
8
F. Quassoli,
Riconoscersi, Differenze
culturali e pratiche comunicative
,
Raffaello Cortina, Milano 2007.
9
G. Chakravorty Spivak,
Critica della
ragione postcoloniale
(1999), Meltemi,
Roma 2004.
10
Z. Bauman,
La società
individualizzata
(2001), il Mulino,
Bologna 2002, pp. 21-22.