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QUADERNI
DI
ORIENTAMENTO
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tante con una portata più ampia di
quanto possa apparire.
E per finire: si rimane ricercatore
per sempre?
Uno scienziato che invecchia, talvol-
ta può perdere un po’ la curiosità o
l’estro, ma mantiene generalmente le
qualità di buon amministratore di
sistemi complessi, spendibili nell’or-
ganizzazione di tante attività. Questo
succede perché anche un solo espe-
rimento scientifico che funzioni bene
è frutto di una gestione sapiente di un
sistema assai complesso, che include
la natura, gli strumenti, le risorse e gli
uomini. Questo tipo di competenza
può riversarsi sulle imprese industria-
li, sui servizi, senz’altro sull’insegna-
mento, l’amministrazione pubblica,
la diplomazia, o la politica. Voglio
richiamare un’ultima volta l’aspetto
culturale e la sua importanza con
una battuta: mi sembra che in questi
ultimi anni ci sia stato un grande sfor-
zo dei mass-media per far diventare
simpatici, o addirittura molto simpa-
tici, i poliziotti, i carabinieri, la guar-
dia di Finanza, i guardacoste, i medi-
ci, le suore ed i preti… Sarebbe ora
di fare una buona serie di film televi-
sivi, da prima serata, sugli scienziati!
Giorgio Rossi
TASC INFM -CNR
LE ESPERIENZE
DEI RICERCATORI 2
INTERVISTA
AL DOTT. MARCO FRANCESE,
RICERCATORE SHORELINE S.C.R.L.
La sua presentazione trae spunto da
una domanda molto interessante
che si è posto: «Il ricercatore è in
un’azienda, oppure, rovesciando la
questione, il ricercatore è l’azienda
stessa?»
Io lavoro in un’azienda e mi sono
posto più e più volte questo proble-
ma. Quindi ho pensato, di utilizzare
me come un key-study per fornirvi
degli spunti che possono essere utili a
orientare le persone che seguono i
percorsi di ricerca scientifica o di for-
mazione in ambito scientifico. E,
quindi, capire se è possibile, crescere
personalmente, facendo crescere al
contempo il contesto lavorativo in cui
si opera in modo professionale. Ora,
sono questo. Io lavoro in un laborato-
rio, il CeRQuAM (Centro di Ricerca e
Qualità Ambiente Marino) che si
occupa soprattutto di analisi eco-tos-
sicologiche e progetto sistemi di in-
terpretazione ambientale, in una so-
cietà cooperativa che è la Shoreline,
che ha la sede legale e questi due
settori nell’Area di Ricerca.
Analizziamo il suo key-study e par-
tiamo a ritroso: si può parlare di
vocazione?
Allora, studi classici, sport acquatici,
un grande amore per la natura.
Prima dell’università erano attività
separate, o a un certo punto conflui-
vano in qualcosa? Probabilmente sí.
Seguitemi un po’ in questo diverti-
mento dialettico. All’università
Scienze Biologiche ed etologia dei
ghiozzi, mi dicevano che ero pazzo
a studiare i “guati” (in triestino) e il
loro comportamento. Ma prima o
poi mi sarebbe servito. Per mangiare
e mantenermi agli studi facevo l’ac-
compagnatore turistico nell’allora
Utat e sempre sport subacqueo.
Sembrano attività separate, ma ad un
certo punto confluiscono. Nella fase
successiva co-mincia il lavoro. Erano
varie le scelte: per esempio avrei
potuto dedicarmi alla pesca. Però, le
varie attività cominciavano a siste-
marsi, come i tasselli di un mosaico,
anche senza nessuna strategia inten-
zionale. Questo è dunque un invito,
soprattutto agli insegnanti dei primi
stadi, dei livelli primari, a stimolare
anche le attività collaterali, a svilup-
parle sempre di più. È opportuno
aiutare le persone a collegare i pez-
zetti della loro vita. Molto spesso
questa opzione è trascurata.
Dunque, mi trovavo a scegliere tra
un sistema produttivo o un indirizzo
inerente l’ambiente o anche la sua
tutela. Mi sono orientato verso la
seconda ipotesi. Infatti ho incomin-
ciato a lavorare al Parco Marino,
Riserva Naturale Marina di
Miramare, dove ho incontrato tanti
amici e colleghi.
Quindi qual è il primo percorso pro-
fessionale?
Quasi sempre, ve lo confermerà la
maggior parte dei biologi, si inco-
mincia con la divulgazione. Per sei
anni ho fatto educazione ambienta-
le, ho avviato progetti di reti con le
scuole; seguivo assieme ad alcuni
colleghi, che sono anche qui in sala,
i campi avventura del WWF a livello
internazionale in tutto il bacino
Mediterraneo, turismo subacqueo e
formazione per operatori simili.
Lentamente le cose cominciano a
confluire: sport acquatici; guidavo i
pullman; quindi, raccontare, dialo-
gare con interlocutori vari, per una
funzione diplomatica ma anche,
appunto, di trasferimento di cono-
scenza.
E il secondo percorso professionale?
Anche questo ve lo confermerà la
maggior parte di quelli che fanno
educazione ambientale, che si arriva
a un certo punto e si dice «Non ne
posso più dei ragazzini». E quindi
meglio tornare a fare lo scienziato.
Ho studiato come biologo, quindi
voglio tornare a fare lo scienziato.
Evviva! Quindi, due anni di monito-
raggi ambientali fuori e dentro l’ac-
qua e una conoscenza solipsistica,
passatemi il termine, ecologica, del-
l’ambiente nel suo complesso, non
specifica. Quello è un grosso rischio
nella formazione e anche questo è
un suggerimento che, secondo me,
bisognerebbe sottolineare. Focaliz-
zando troppo, si perde la visione di
insieme. Di errori nella scienza ne
abbiamo visti tanti.
E il terzo percorso professionale?
Qui subentra il dilemma etico. Ma,
se accadono queste cose, posso fare
qualcosa come ricercatore? La scel-
ta dice di dedicarmi alla pesca, ma
la tutela ambientale si pone dram-
matica, interiormente. Uno dice sei
anni faccio quello, poi le cose
ovviamente si sovrapponevano. Ho
cominciato a monitorare l’acqua,
però qualcosa per l’ambiente lo
posso fare, oltre alla divulgazione?
E, quindi, torno in laboratorio
abbandonando la vita all’aperto, mi
rimetto un camice e ormai sono sei
anni che ci occupiamo qui in Area
di Ricerca di eco-tossicologia e di
studi sul wellness animale; ecco
dove mi porto dietro quella etologia
del ghiozzetto, tutto ad un tratto me
la trovo importante; aver capito
come pensa un pesce mi aiuta a
capire come può pensare un pesce