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QUADERNI
DI
ORIENTAMENTO
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re insieme, cedere un poco e trat-
tenere dall’altra, proprio per creare
una coordinazione. Il nostro pro-
blema come insegnanti, tuttavia, è
che abbiamo di fronte una classe
con venti, trenta, quaranta bambini
che piangono, e che piangono in
diversi modi e tempi, come coordi-
narli tutti quindi? Abbiamo alcune
risorse, ad esempio pensiamo a co-
me dentro di noi esistono una mol-
teplicità di voci, o potremmo dire
dei “sé multipli” , voci che escono
da tutte queste relazioni. Dovrem-
mo essere liberi di tornare indietro
in tutte queste storie di relazioni,
trarre risorse e utilizzarle.
Queste risorse potrebbero essere ad
esempio l’autorità. Io ricordo mio
padre come era autoritario, un’altra
risorsa è l’amore e la cura per gli al-
tri, l’amicizia, raccontare barzellet-
te, l’estetica. Abbiamo risorse mol-
teplici che possiamo trarre da que-
ste molteplici relazioni e dovremmo
trarre vantaggio, metterle tutte in
gioco e renderle tutte possibili per
far parte di questa improvvisazione
necessaria per andare avanti giorno
per giorno. E mi piace questa me-
tafora: l’idea di “improvvisazione”:
insegnare come una continua im-
provvisazione. Possiamo trarre van-
taggio anche dal fatto che anche il
bambino ha voci molteplici. Nella
vecchia tradizione siamo stati abi-
tuati a pensare all’individuo come
avente un unico centro, un nucleo e
il nostro compito era quello di cer-
care di conoscerlo, ma seguendo
questo approccio costruzionista do-
vremmo pensare alla persona come
una molteplicità, essere capaci di
muoversi in diverse direzioni, e
qualsiasi cosa siano, rispetto alle
nuove relazioni che si formano, in
parte siamo responsabili. Non ab-
biamo un bambino intelligente, fino
a quando non lo creiamo intelligen-
te. Non ci sono bambini intelligen-
ti, ma ci sono solo relazioni dalle
quali si trae intelligenza, che noi
aiutiamo ad uscire, ad emergere.
Quindi un bambino che può sem-
brare “stupido”, “poco interessato”,
che “non partecipa”, quel bambino
ha invece molteplici possibilità. In
un altro contesto potrebbe sorpren-
derci, può meravigliarci. Ad esem-
pio questa mattina Masoni ha porta-
to un buon esempio di una ragazza
che probabilmente a casa stava dav-
vero male, ma la scuola la ha resa
felice coinvolgendo persone. Pos-
siamo quindi guardare ad ogni
bambino non come ad una unicità,
un unico nucleo, un sé fisso, ma un
sè molteplice che noi contribuiamo
a creare.
Ma adesso parliamo delle implica-
zioni pratiche.
Ci piacerebbe parlare di quattro
aree pratiche, parlarne insieme sen-
za regole e vedere dove arriveremo,
dove si arriva. Prima di tutto: “peda-
gogia” nella scuola cosa significa?
Abbiamo già cominciato a dirlo, ab-
biamo ereditato una tradizione di
monologhi, del tipo “io sono l’inse-
gnante, io sono il possessore della
conoscenza” per gli insegnanti, e
“lo studente è l’ignorante, colui che
non possiede la conoscenza”, quin-
di il nostro compito è ancora, il di-
segno di Masoni era molto esplica-
tivo, quello di versare la conoscen-
za nella testa dell’individuo, quello
che noi conosciamo, quello che noi
sappiamo. Questa prospettiva eredi-
tata è ancora viva e vegeta, la eredi-
tiamo ancora adesso, lo abbiamo
fatto tutta la mattina perché questo
è un monologo e in un certo senso
non è una relazione ideale perché
non rende onore alle vostre voci è
troppo a senso unico, io so, io co-
nosco, voi no. E’ un problema an-
che questa struttura, questo setting,
questo modo di sedere di fronte a
voi è fisso, tutti nella stessa direzio-
ne. Qui c’è la conoscenza e lì ci so-
no gli ignoranti. E’ già pronto così,
ci sta creando così, ma è una forma
inferiore di relazione.
(Mary)
Anch’io volevo parlare di questo,
ma prendendo sul serio quello che
hai detto prima, dipende da te, so-
prattutto in questo caso di tradu-
zione, dipende dal nostro interpre-
te, dai nostri interpreti e da te an-
cora, ma tu aggiungi ancora del-
l’altro a questa conversazione per-
ché parlerai a tutti, parlerai dopo
nella pausa caffè, a pranzo di que-
ste idee e in questo senso collabo-
rerai a qualsiasi cosa succeda in
questo setting tradizionale.
(Ken)
Penso alle mie classi degli ultimi
dieci anni. Ho cercato sempre più
di non dare lezioni, cercando altri
modi di spiegare le cose e non pos-
so dire che quello che faccio sia la
cosa migliore da fare, ma tutti noi
dobbiamo improvvisare. Per esem-
pio ci sono diversi corsi in cui la-
voro con piccoli gruppi di studen-
ti, che pianificano cosa fare duran-
te le lezioni. Potremmo ad esempio
prendere in considerazione un ar-
gomento e sono loro a decidere,
come gruppo, cosa è interessante
di quell’argomento e cosa ne po-
tremmo fare: “dovremmo tenere
una lezione, discuterne, guardare
un film, invitare qualcuno, do-
vremmo uscire e camminare per i
campi, dovremmo recitarlo”. Deci-
dono ciò che è interessante, cosa
farne e poi vengono da me con le
loro idee, magari dopo un’intera
settimana, e mi dicono: “è questa
la cosa secondo noi più interessan-
te da fare”. Io ho qualche idea,
posso aggiungere qualcosa, dare
qualche input e insieme creiamo
quella che sarà la lezione della set-
timana seguente.
(Mary)
Agli studenti piace tanto e spesso si
collegano in rete tramite internet
nella sala computer.
In tutti i miei corsi, è naturalmente
più facile quando insegni al colle-
ge perché gli studenti pagano per
essere lì. In tutti i nostri corsi e in
particolare in questi casi, ci sono
ciò che io chiamo “action assign-
ment” (consegne o esercitazioni
pratiche, di azione) e io penso, dal
mio punto di vista, che più il corpo
viene coinvolto nell’apprendimen-
to e più si può godere e apprende-
re le idee o i concetti.
Per esempio una delle idee impor-
tanti che mi piacerebbe condivide-
re con i miei studenti di psicologia
del primo anno è l’idea di memo-
ria. Perché la memoria non è una
raccolta di foto, di immagini, che
abbiamo in testa, dalla quale attin-
giamo ogni momento e non cam-
bia mai. Noi creiamo e co-creiamo
la nostra memoria mentre ricordia-
mo. Per esempio dico “pensate ad
un evento importante della vostra
infanzia, prima infanzia, scrivetelo
e poi andate ad intervistare le per-
sone, parenti o amici, che erano lì
in quel momento, o che hanno
partecipato a quell’esperienza. In
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