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QUADERNI
DI
ORIENTAMENTO
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delle auto-narrazioni che è data da
ciò che il nostro Andrea pensa di sé,
crede, spera, teme, giudica di sé; e
poi ci sono le etero-narrazioni, la
terza componente, cioè le cose che
gli altri importanti, significativi per
Andrea, pensano, dicono, credono
di lui. Il disegno sintetizza dunque
un concetto attuale davvero impor-
tante. La nostra identità, il nostro io
è costruito anche, e forse in modo
preponderante, dagli “altri”, dalle
loro convinzioni rispetto a noi, dal-
le loro ansie e paure, dalle loro cre-
denze. Vi racconto a questo propo-
sito, ad ulteriore illustrazione di
questa ipotesi, due episodi che pro-
babilmente renderanno l’idea più di
lunghi discorsi teorici.
Primo episodio. Parecchi anni fa,
centro d’ascolto in un liceo, bussa
alla porta un insegnante, entra nella
mia stanza, la stanza dello psicolo-
go, e mi dice: “Masoni c’è una ra-
gazza che fa la quarta liceo che va
malissimo e io penso che dovrem-
mo fermarla, però mi spiace perché
è intelligente, il primo anno andava
benissimo, puoi fare qualcosa?” Di-
co: “Io non posso fare miracoli, pos-
so parlare con i ragazzi se vengono
loro”, ma la prof insiste: “Beh, credo
che te lo debba dire, ma mi racco-
mando, è una cosa molto riservata;
la ragazza ha subito uno stupro
quattro anni fa, ecco perché adesso
va male a scuola, quindi tu, in quan-
to psicologo, forse puoi fare qualco-
sa. Mi raccomando ancora: di que-
sta cosa non sa niente nessuno!”
Dopo due giorni bussa un'altra inse-
gnante, entra, abbassa la voce: “Ma-
soni una cosa riservatissima, c’è una
ragazza che ha subito una violenza
carnale, ecc.”. Dopo quattro giorni
arriva la bidella: “dottor Masoni lo
sa cosa è successo a quella ragazza
quattro anni fa ...”. Insomma la cosa
era nota a tutti; non è pertinente dir-
vi qui cosa è stato fatto, la questione
si risolse in due incontri, in due in-
contri ricominciò ad andare bene a
scuola. Sia chiaro che nessuno le ha
“cancellato” quel brutto episodio
della sua biografia, quel pesante
episodio è rimasto, ma l’uso che ne
faceva la ragazza in modo inconsa-
pevole l’abbiamo tolto.
Altro episodio, assai diverso, ma da
confrontare col primo. Passano due
mesi, bussa alla mia porta una ra-
gazza, entra e scoppia a piangere e
in un'ora e venti, tra singhiozzi e li-
tri di lacrime, mi racconta la sua sto-
ria. Mi dice: “Sono disperata, è la
prima volta che ne parlo con qual-
cuno, a scuola nessuno sa niente “;
questa volta era vero: “mio padre
beve da anni, da quando io sono
piccola, e quando beve, pratica-
mente sempre, entra in casa, urla e
picchia me, mia sorella e mia ma-
dre, da una vita. Non ne posso più “.
Io, psicologo nella scuola, un po’ in-
genuamente chiedo, era mio dovere
farlo: “E come sta andando a scuo-
la?“. lo chiedo con aria triste, com-
prensiva, un’aria che come accade a
noi tutti rende spesso retoriche le
nostre domande, ero infatti davvero
molto colpito e mi aspettavo come
ovvie delle conseguenze disastrose
di questi eventi nella vita scolastica
, ma la ragazza mi risponde: “Va tut-
to bene, ho tutti sette “. Ora mettia-
mo a confronto i due episodi. Nel
primo caso la scuola era al corrente
di tutto ed era in assoluta buona fe-
de, ma con la sua comprensione e la
sua vicinanza espresse verbalmente,
oltre che con gli sguardi, con le
azioni, con i voti, in qualche modo
comunicava alla ragazza: “Guarda,
lo sappiamo cosa ti è successo, sap-
piamo che con quello che ti è capi-
tato è normale che poi si vada male
a scuola, capiamo questa cosa“. In
qualche modo il messaggio che le
mandavano in sintesi era questo:
“Riteniamo che sia comprensibile
che tu vada male a scuola”. La ra-
gazza, anch’essa in modo inconsa-
pevole e quindi incolpevole acco-
glieva l’invito, aggiungendo danno
al danno. Nell’altro caso la scuola
non sapeva assolutamente nulla;
quella ragazza lasciava l’inferno a
casa, varcava la porta della scuola
ed entrava in paradiso. Era riuscita a
rompere questo racconto, a separar-
lo in due storie diverse e a farne due
mondi diversi. È un esempio che a
me pare piuttosto chiaro su cosa si-
gnifichi dare il nostro contributo al-
la costruzione del benessere. Un
contributo che non implica sempli-
cemente sorrisi e buonismi. Lavora-
re in quel senso vuol dire avere in
mente che molte delle cose che stia-
mo facendo, che molte delle emo-
zioni che proviamo, le credenze che
abbiamo, non sono altro che stru-
menti utilizzati in buona fede dai ra-
gazzi per alimentare i loro problemi.
Se questo diventa chiaro, la richiesta
è questa: occorre che l’insegnante,
l’adulto mettano in atto grandi auto-
cambiamenti, inizi a leggere diver-
samente gli eventi, inizi a pensare
che qualunque ragazzo, in qualun-
que condizione, anche socio-eco-
nomica difficile, possa teoricamen-
te, potenzialmente, virtualmente far-
cela. Se penso che ogni ragazzo può
farcela e comunico una mia attesa
in questo senso, e tolgo gli alibi, con
i quali io utilizzo anche i miei falli-
menti di insegnante, se faccio que-
sto promuovo il benessere.
Posso, quindi, farlo cambiando lenta-
mente le narrazioni che ho in testa, io
insegnante, io psicologo; se voglio
cambiare occorre che faccia queste
cose, che metta in atto una svolta di
parecchi gradi ai miei punti di vista.
Posso fare anche altro poi, posso la-
vorare diversamente, e verrà da sé,
una volta acquisita questa competen-
za, questa sicurezza che il ragazzo ha
potenzialità assolutamente presenti
sempre. Noi potremmo addirittura di-
re che il ragazzo Antonio a scuola ha
messo in atto certe modalità per riu-
scire a sopravvivere in un mondo in
cui non conosce altri mezzi per farlo
e, molte volte per andare male occor-
re essere intelligenti, per sembrare ad-
dirittura “tonti” occorre essere acuti e
intelligenti. Una volta divenuti com-
petenti, una volta capaci di leggere le
cose in questo modo noi possiamo di-
re, raccontare a questi ragazzi, qual-
cosa che demolisca le loro credenze.
Vorrei portarvi un altro esempio. È
uno spezzone, l’inizio di un corso
che dura quattro ore con i ragazzi,
dove tentiamo di smantellare le cre-
denze, le convinzioni, le narrazioni
con le quali i ragazzi si costruiscono
alibi per non fare nulla, anche loro lo
fanno, anche loro sono buoni, o me-
glio buonisti, con se stessi. Diciamo: a
questo gruppo di cinque ragazzi, per
esempio, “abbiamo una macchina
che va in panne, si ferma, allora i due
ragazzi che sono a bordo si dicono:
“Beh scendi”; ne scende uno e co-
mincia a spingere la macchina.
Ma subito dopo anche l’altro ragaz-
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