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SPAZIO APERTO
condotta sarebbe mediata dal pro-
gressivo passaggio da un controllo
del consumo di tipo corticale - quin-
di volontario - a uno controllo sot-
tocorticale, dello striato, quindi im-
pulsivo, compulsivo. In questa una
transizione sono cruciali i fenomeni
di neuroplasticità che intervengono
sulla circuiteria dopaminergica tra
corteccia prefrontale e complesso
striato per effetto dell’assunzione
cronica della sostanza.
Hyman (2005 e 2007) è ancora più
eloquente a questo proposito e pro-
pone di considerare la dipendenza
come una malattia dell’apprendi-
mento e della memoria: una pato-
logica occupazione da parte delle
sostanze d’abuso dei meccanismi
nervosi che naturalmente servono
a modellare i comportamenti fina-
lizzati alla sopravvivenza dell’indivi-
duo e della specie, attraverso i pro-
cessi di ricompensa.
Esistono poi molte altre interpre-
tazioni e ipotesi sui meccanismi pa-
togenetici della dipendenza come
malattia (si veda ad esempio Chao e
Nestler, 2004; Koob e Kreek, 2007, Le
Moal e Koob, 2007), tuttavia, come
osserva Hyman (2007), a dispetto
di alcune differenze sui meccanismi
in gioco tutte le principali formula-
zioni dell’idea di dipendenza come
malattia del cervello concordano
sul fatto che il segno cardinale di
questa condizione è la diminuzione
del controllo volontario del com-
portamento.
Questo modello biomedico della
dipendenza come malattia non è
universalmente ritenuto in grado
di rappresentare adeguatamente
la natura e le peculiarità della con-
dizione. Descrizioni di tipo psicolo-
gico e sociologico sono in grado di
cogliere elementi della fenomeno-
logia di questi comportamenti che
ancora sfuggono alla prospettiva
biomedica. Inoltre, dato che in ogni
caso qualunque tipo di intervento,
sia esso farmacologico, psicoterapi-
co o comportamentale, finisce per
avere come bersaglio gli indirizzi
chimici e microanatomici del cervel-
lo e modificare così le sue funzioni e
le sue circuiterie, le strategie di cura,
recupero e prevenzione di tipo psi-
cosociale hanno non di rado un gra-
do di efficacia comparabile a quello
degli approcci medicalizzati.
Il dibattito su quale sia il model-
lo migliore ci appare francamente
poco interessante. È evidente che
la complessità della dipendenza, la
diversità e la circolarità dei livelli di
processi e fenomeni che coinvolge
– da quelli molecolari a quello socia-
li, impongono l’uso di approcci con-
cettuali e operativi articolati, multi-
dimensionali, sempre integrati.
In questo caso proveremo a ri-
flettere sulla nozione di malattia
e sull’idea della dipendenza come
malattia dell’apprendimento, come
patologia del controllo volontario
del comportamento. Ciò perché,
come mi auguro risulterà chiaro, gli
aspetti controversi della nozione di
dipendenza come malattia, vanno
oltre quelli denunciati dalla pro-
spettiva psicosociologica. Esiste un
tratto problematico più fondamen-
tale, radicato al carattere dubbio
della stessa concezione naturaliz-
zata, oggettiva, della malattia come
alterazione di una qualche funzio-
ne biologica normale in un indivi-
duo. Si badi bene, mi sto riferendo
al concetto di malattia circoscritto
all’orizzonte
ezio-fisiopatologico,
quello cui si fa generalmente ap-
pello in ambito clinico e che d’ora in
poi indicherò semplicemente come
concetto biomedico. In medicina il
concetto biomedico di malattia co-
abita, ma purtroppo sembra si inte-
gra, con l’idea di condizione morbo-
sa propria della prospettiva epide-
miologica. In questo caso la com-
prensione della malattia esclude
l’indagine sulla natura dei meccani-
smi causali a livello dell’organismo
di un individuo e si concentra sulla
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