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ORIENTAMENTO E scuola
re il battito cardiaco, la postura, i proces-
si attentivi e mnemonici, la motivazione,
fino alla cascata di neurotrasmettitori
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che dal cervello raggiunge il resto del
corpo. Cosa allora è importante sapere,
come educatori, sullo stato emotivo di
alunni e alunne? Alcuni concetti do-
vrebbero essere sempre tenuti a mente.
Le emozioni sono diffuse. Ogni mo-
mento è stato-dipendente, quindi carat-
terizzato sempre da uno specifico stato
emotivo. Questo significa che anche
un ragazzo apparentemente apatico,
in quel momento sta sperimentando
uno stato emotivo, di cui magari non è
consapevole. Le emozioni sono connes-
se al comportamento. Questo significa
che se uno studente non è in uno stato
emotivo appropriato per mettere in atto
il comportamento che ci si aspetta in
quel momento da lui, probabilmente
quel comportamento non ci sarà finchè
non ci sarà un cambio di stato.
Le emozioni non sono ciò che siamo.
Sono infatti qualcosa di cui facciamo
esperienza e anche se un particolare sta-
to, come per esempio l’essere malinco-
nici o irrequieti, si presenta spesso come
tratto caratteristico di un individuo, l’er-
rore da evitare consiste nell’etichettare
quel soggetto proprio a seconda del suo
stato. Seguendo questo discorso, non ci
sono studenti demotivati o arrabbiati,
ma studenti che stanno vivendo uno
stato di demotivazione o di rabbia.
Le emozioni sono transitorie. Nei
bambini e negli adolescenti forse que-
sto concetto è più evidente, vista la tem-
pesta emotiva che attraversa queste
fasi dello sviluppo. Proprio per questo
motivo è importante riuscire ad aiutarli
fornendo loro strumenti che consenta-
no di gestire il flusso delle emozioni che
caratterizza le loro azioni.
Gli stati emotivi stabili sono un pro-
blema. Sperimentare uno stato emotivo
per lungo tempo rischia di automatiz-
zare certe elaborazioni comportamen-
tali e psicologiche, a volte disfunzionali,
perché riconosciute dal nostro sistema
come familiari e confortevoli.
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Il coinvolgimento
ossia l’attenzione
selettiva
Il coinvolgimento in termini di atten-
zione impiegata per svolgere un deter-
minato compito, non è un requisito che
interviene in tutti i tipi di apprendimen-
to. Molto di quello che sappiamo, pro-
babilmente più del 90%, è il risultato di
acquisizioni inconsce. Tuttavia, per le
attività che vengono condotte a scuola,
il coinvolgimento in termini di capaci-
tà attentive che vengono cosciente-
mente spese da parte dello studente,
rappresenta un elemento importante.
Richiedere attenzione sostenuta allo
studente necessita tuttavia di uno sforzo
a volte snervante e improduttivo. Per-
ché? Le nostre richieste devono com-
petere con stimoli che sono addirittura
biologicamente rilevanti, come strin-
gere rapporti sociali ed evitare quindi
l’esclusione, spegnere la fame e la sete,
combattere il sonno, il caldo o il freddo.
Inoltre, il cervello impiega costantemen-
te molte energie per evitare il pericolo di
incorrere in situazioni dannose per sé e
gli altri, momenti imbarazzanti o occa-
sioni che generano possibili fallimenti.
Ancora, le ricerche ci dicono che attivi-
tà come attenzione, memorizzazione,
apprendimento, richiedono alti livelli
di glucosio, che precipita in maniera
repentina anche sulla base del com-
pito in cui siamo impegnati. Il risultato
sarà allora uno studente presto stanco,
disattento e apatico.
In generale poi, la mancanza di zuc-
cheri rende il soggetto meno capace
di controllare volontariamente il com-
portamento e di inibire l’aggressività.
Ecco quindi che l’espressione “prestare
attenzione”, in inglese “pay attention”,
risulta appropriata, perché il cervello
in effetti “presta” le sue energie, “paga”
la perdita delle sue prezione risorse. Si
tratta infatti di orientare, ingaggiare e
mantenere attivi i network neurali ap-
propriati. Al tempo stesso, come ab-