pedagogico-didattici proposti paiono
essere delle splendide “parentesi” che
non consentono di intravedere il volto
ordinario, feriale, del curricolo scolasti-
co. Sono proprio le azioni svestite dal-
l’abito festivo, gli interventi quotidiani,
fatti di interazioni, di visioni, di opzioni
metodologico-didattiche, di prossemi-
ca, ecc. , che fanno “star bene” o “star
male” i ragazzi, ma anche i profession-
isti. Sono i
“climi pedagogici”
, caratter-
izzati soprattutto dagli impliciti, dai
non detti e non scritti, intrisi di infor-
malità e di ritualità insieme, che costru-
iscono e costituiscono la vera qualità
educativa.
Parafrasando un noto e stimolante con-
tributo di Norberto Bottani, dovremo
dire che “
la ricreazione è finita
”: la
scuola dei mille progetti e progettini,
dell’evasività incoerente e della spetta-
colarità evanescente si deve reinter-
pretare nella logica della currico-
lazione, ossia della costruzione di un
quadro complessivo del cammino cul-
turale e pedagogico scolastico leggibile
e interpretabile dentro e fuori dal con-
testo formativo. E’ ancora il tema della
ferialità che si ripropone con decisione.
Un’altra sottolineatura mi pare nec-
essaria: smettiamola con tutte queste
indagini sul disagio giovanile, alla
ricerca dei “ragazzi problema”. Siamo
noi adulti
, nei diversi ruoli ,
il proble-
ma
” che giochiamo alla mistificazione
e al mascheramento per sentirci a
posto e rimuovere, o quanto meno
allontanare da noi, l’interrogativo
mobilitante le nostre coscienze umane
e professionali.
Mi pare emblematico ciò che sta avve-
nendo in questi giorni in alcune scuole
superiori udinesi, ma poi scenderemo
anche alle secondarie di primo grado,
con le richieste di interventi delle forze
dell’ordine per prevenire atti di teppis-
mo che accadono fuori dalle scuole e
svolgere una funzione di deterrenza.
Quale cecità pedagogica! Ritengo
estremamente grave il fatto che le
scuole non problematizzino la que-
stione, mediante uno stimolante inter-
rogativo: perché? E’ necessario certa-
mente che si costruiscano alleanze
formative territoriali, di segno anche
interistituzionale, ma l’istituzione scuo-
la non può assumere un atteggiamento
deresponsabilizzato di fronte a mani-
festazioni di malessere che interpellano
anche lei, a meno che non intenda
abdicare alla funzione educativa che le
è imprescindibilmente costitutiva.
Punire è per la persona e per la sua
redentività, umana ,personale e sociale
insieme; si colpisce il peccato, ma si
salva il peccatore, secondo una nota
sintesi sapienziale popolare. Anche la
punizione, se non vuole collocarsi nel
gioco autoritario di forza repressiva,
deve iscriversi in un complessivo dise-
gno educativo. Purtroppo l’educazione
nel suo complesso, come pure il suo
segmento scolastico, risentono del
“clima” di repressione che acritica-
mente mentalizza un’abdicazione for-
mativa e preventiva, ricorrendo alla
forza repressiva che si può tragica-
mente riassumere nella metafora della
“guerra”. Nel nostro Paese diminui-
scono gli insegnanti e crescono le forze
dell’ordine e tale fatto conferma una
precisa linea di tendenza; per altro si
dimentica, forse, che è più “costoso”
rieducare piuttosto che educare, anche
dal punto di vista economico, oltre che
da quello umano e sociale. Sono in
crescita le istituzioni “rimediali” ed
anche tale fatto dovrebbe far pensare.
Siamo nella logica della rimozione del
problema, assumendo una presunta
“distanza di sicurezza” dallo stesso.
Lo sfondo formativo si contestualizza,
come vediamo, all’interno di un com-
plessivo
sfondo socio-culturale
, per cui
è necessario esercitare la decisionalità
nell’alveo di alcune consapevolezze
.
Zygmunt Bauman, sociologo polacco,
fornisce un interessante chiave di let-
tura della stagione che stiamo vivendo,
utilizzando il concetto di
“modernità
liquida
”: il connotato della “liquidità”
si contrappone ad ogni atteggiamento
riflessivo e la transitorietà diviene anti-
nomica rispetto all’esercizio della
responsabilità e, quando la pubblica
piazza è occupata dai banchi del mer-
cato, le voci autentiche della gente
vengono sopraffatte dall’assordante
vociare dei venditori. Si sta assistendo
ad uno “sciogliersi” delle identità per-
sonali e delle appartenenze societarie.
Da dove partire per un’inversione di
tendenza?
Lo scorso 12 ottobre in un fondo
del Corriere della sera, De Rita utiliz-
zava la metafora dannunziana, deca-
dente, delle “vele stanche” per delin-
eare il clima del tempo presente.
Rilanciava con forza il
tema del ter-
ritorio
; è “dal basso”, dai contesti
vitali che si possono modificare le
situazioni. Se utilizziamo quest’ottica
per la scuola, che sta vivendo una
pericolosa “crisi depressiva”, si deve
problematizzare la prevalenza della
logica delle riforme, rispetto alla
coltivazione dei processi di inno-
vazione “situata”. Non saranno certo
le riforme che scendono dall’alto,
pensate a tavolino, a modificare i
fatti, le realtà, le dinamiche e i con-
testi. Se questo è vero sempre, all’in-
terno di un riconoscimento del sis-
tema delle autonomie risulta ancor
più paradossale. Una riforma senza
le persone, pensata sulla scuola, ma
non con la scuola, non potrà mai
essere generativa di processi innova-
tivi in quanto essi maturano in
dimensione partecipe, altrimenti l’u-
nico esito sarà quello di rinforzare le
resistenze.
C’è un’altra consapevolezza da matu-
rare che si riferisce in maniera precisa
al benessere dei ragazzi, come dirit-
to/dovere all’esercizio di cittadinanza
attiva, che si coniuga con il tema del-
l’
equità educativa.
Nel nostro Paese il
20,2% degli studenti alla fine della
scuola media si trova in grave difficoltà
di fronte a testi semplici e a compiti
elementari (indagine internazionale
PISA 2000, sulle competenze in lettura
dei quindicenni). Ci riferiamo al ritar-
do in lettura come a una componente
certamente determinante nella spie-
gazione delle disparità educative. Il
benessere che la scuola è chiamata a
perseguire, in dimensione personale e
sociale, è costituito dalla promozione
delle competenze cognitive, affettive e
relazionali e del
successo formativo.
La combinazione di precarietà nella
padronanza degli strumenti e dei signi-
ficati di base, con il
“pensiero corto”
e
con l’analfabetismo culturale, erode la
possibilità di proiezione di futuro e la
coltivazione di sviluppo dei significati
stessi.
Occorre ripensare
la scuola come uno
dei mondi vitali del territorio
, raf-
forzando il senso di appartenenza.
Nelle presentazioni delle esperienze
ricorrevano espressioni del tipo: “io”,
“nella mia classe”, “nella 1° A, B”, ma
non emergeva la dimensione dell’unità
scolastica come comunità di insegna-
mento e di apprendimento. Non si
intravede una
piattaforma educativa
della scuola
che svolga una coerente
funzione regolativa dei comportamenti
delle persone coinvolte a diverso titolo.
La perdita del senso di appartenenza è
per molti ragazzi e giovani la causa e
l’origine di comportamenti devianti,
essi si aggregano tra loro e perdono i
legami e le connessioni con gli adulti,
la storia e la cultura.
La scelta del modello di riferimento
del disegno riformatore nel nostro
Paese ha inferto un colpo decisivo
all’idea di
scuola come comunità
: al
personalismo comunitario si è sostitu-
ito un pronunciato individualismo for-
mativo e apprenditivo che potremmo
anche definire di segno “privatistico”.
La valenza “pubblica” della scuola
della Repubblica pare curvarsi ad una
sorta di supermarket nel quale cia-
scuno compra e consuma ciò che
ritiene utile per sé.
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QUADERNI
DI
ORIENTAMENTO