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que una scelta derivata da tante
assimilazioni e condivisioni; anche
da situazioni esistenziali. Significava
aver trovato un valido tema per uscire
dalla routine del lavoro quotidiano
(garanzia di sopravvivenza); inoltre
dava occasione a un giovane fotogra-
fo per verificare le proprie capacità in
direzione del sociale.
Negli anni precedenti al lavoro su
Le Valli del Natisone avevo intrapre-
so alcune particolari esperienze, con
pura passione e necessità sperimen-
tale. […] Attraverso la pratica e la ri-
flessione mi ero quindi costruito una
cultura visiva abbastanza autonoma,
lontana dal realismo populista (in-
vadente anche oggi) e inattaccabile
dalla “sbracata retorica del verismo”.
Gran parte del Friuli, ad eccezione
del nord-est, era stato esplorato da
protagonisti del neorealismo. Anche
la verginità fotografica dei luoghi,
e l’opportunità di dialogo con una
minoranza slovena di cui poco sape-
vo, davano stimolo all’esplorazione
delle Valli.
Ostacoli e ritardi per iniziare il lavo-
ro ce ne furono diversi, a cominciare
dalle servitù militari le cui disposizio-
ni categoriche bisognava assoluta-
mente rispettare, anche se ridicole.
Ma poi tutto si svolse speditamente:
completai il reportage visitando tutti
i comuni con percorsi settimanali,
specialmente nei week-end, dal no-
vembre 1967 al settembre 1968.
Per raccogliere maggiori infor-
mazioni, cercai il dialogo con alcu-
ne personalità di cultura e di vita,
riconosciute dal popolo delle Valli.
Era impossibile realizzare un buon
lavoro con poca conoscenza: tornò
utile alquanto incontrare il maestro
Paolo Petricig (alcuni pannelli visivi
illustranti la sua innovativa didattica
furono esposti in mostra), l’architetto
Valentino Simonitti, il militante Isido-
ro Predan ed altri ancora.
Man mano che il lavoro procede-
va, le persone che riprendevo con la
mia Rolley sfatavano il pregiudizio sul
carattere chiuso e difficile delle genti
di montagna. La minoranza slovena,
che preferisco chiamare comunità,
dimostrava il proprio orgoglio, no-
nostante le disgrazie della storia, le
umiliazioni fasciste, le scorrerie delle
bande tricolori, l’emorragia dell’emi-
grazione, il sottosviluppo e quello
spirito antislavo che ha avvelenato i
rapporti tra i popoli collocati lungo
un confine aspro e dannoso.
Documentare il degrado di un
territorio e la vita di un popolo che
doveva sopportare dure situazioni
(oppure emigrare) significava usare
gli stilemi del neorealismo. E fu la
mia scelta convinta, ma con alcune
varianti: gran parte delle foto riprese
con sguardo ravvicinato assunsero
forma simbolica, l’accostamento di
alcune immagini produsse significati
altri,... durante molte visite dentro
Mersino Alto e Mersino Basso dalla
voce degli abitanti registrai opinioni
e brevi racconti che, debitamente
trascritti, vennero esposti accanto
alle fotografie.
Mi ero decisamente ispirato, per
questo dialogo fra parola e imma-
gine, alla prestigiosa pubblicazione
che il grande fotografo americano
Paul Strand e Cesare Zavattini dedi-
carono a Luzzara, il paese natale dello
scrittore (Un paese, Einaudi, 1955).
Mi sforzai di realizzare un valido
lavoro ma, per convinzione cultura-
le, non perseguivo valori estetico-
fotografici né particolari equilibri
formali. [...]
Negare valore al dato estetico,
considerato ambiguo e deviante ri-
spetto alle finalità del reportage, era
frutto di convinzioni culturali un po’
categoriche, che furono comunque
propulsive. [...]
La mostra [inaugurata il 23 no-
vembre 1968 al Centro Friulano Arti
plastiche di Udine, ndr] risultò sco-
moda per i pochi, soliti benpensanti
i quali – per opportunismo, calcolo
politico, quieto vivere o bassa cultu-
ra – si rifiutavano di vedere la reale
condizione di quel territorio, oppure
la negavano. […]
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