cui essa matura. È significativo il tito-
lo di quell’esperienza (
Movimento di
liberazione in Friuli 1900/1950
), a sotto-
lineare il senso di una Resistenza che
non può essere pensata come episo-
dio circoscritto agli anni finali della
seconda guerra, ma come processo
intimamente legato al movimento di
emancipazione delle classi popolari
in Friuli sui tempi lunghi, a percorre-
re l’intero Novecento. Un processo
di cui si può e si deve restare parte.
Non si comprenderebbe Riccardo – il
suo impegno in prima linea, le sue
battaglie, la sua durezza etica, anche
i suoi furori – fuori da questa prospet-
tiva di continuità con la fatica storica
dell’emancipazione popolare. Tornato
a Udine per aprire un suo studio nel
1963, dopo l’esperienzamilanese, con
questo spirito Toffoletti ha affrontato
sia il doppio impegno di fotografo
– ricordo almeno il provocatorio re-
portage del 1968 sulla Benecia – e
di storico della fotografia (o, meglio,
di storico e critico della società at-
traverso la fotografia), di mediatore
fra fotografia e correnti artistiche
di punta (in un Friuli così sordo nei
confronti dell’arte contemporanea);
con questo stesso spirito si è calato
già dal 1969 nella parte di animatore
dell’attività del Circolo culturale Elio
Mauro: lì, l’incontro con Vittorio Vi-
dali e l’avvio dell’intenso lavoro che
durerà, in crescendo, tutta la vita, di
riscoperta della figura di TinaModotti,
di riproposta (le mostre del 1973 e
del 1979, il loro viaggio in giro per il
mondo, l’ultimo progetto espositivo
su Tina rimasto incompiuto, e ora in
allestimento, postumo; il convegno
internazionale del 1989; la fondazione
del Comitato udinese a lei intitolato),
di tutela della memoria dalle tante e
ricorrenti tentazioni di edulcorazione
e strumentalizzazione.
Riccardo Toffoletti lascia un’eredità
complessa. Qualche anno fa Pietro
Clemente, antropologo curioso e ap-
passionato rastrellatore di «storie di
vita» (non a caso una delle anime di
quell’Archivio diaristicodi Pieve Santo
Stefano, fondato da Saverio Tutino,
che dal 1984 raccoglie “scritture dal
basso” e testi autobiografici di gente
comune), aveva chiesto a Toffoletti,
conosciuto entro la relazione comu-
ne con Ettore Guatelli, di mettere su
carta il racconto del suo processo di
conversione, in gioventù, al mon-
do delle immagini. Richiamando il
primo insinuarsi della fotografia nei
propri progetti di vita, Riccardo così
gli scriveva: «
fantasticavo di diventare
architetto, ma ho vissuto l’infanzia, la
fanciullezza e parte della giovinezza fra
la segatura e i trucioli di un laboratorio
di ebanisteria e i rotoli fotografici Ferra-
nia eGevaert
». Ecco riassunto in poche
battute, il convergere nella sua espe-
rienza e nella sua memoria profonda
di un’eredità complessa che per linea
paterna rimandava all’alta esperienza
dei Toffoletti (il nonno Vincenzo, il
padre Antonio) nell’artigianato del
legno, e per linea materna a quella
altrettanto complessa dei Turrin: pri-
ma l’introduzione pionieristica della
fotografia nella vivacissima Tarcento
d’allora da parte del nonno Cesare
(una sorta di mago che si occupò in
maniera eccellente anche di pittu-
ra, restauro, ceramica, scenografia,
fuochi d’artificio), poi la passione e
l’attività di fotografa di Erminia, sua
madre. Trovo qui la matrice dell’agire
di Riccardo: in una tradizione artigiana
ostinata che da sempre fonda la pro-
pria specificità nella combinazione di
gusto per il lavoro ben fatto e insieme
per la ricerca e l’apertura al nuovo, in-
nestata su uno spirito intrinsecamente
anticonformista e schierato, incapace
di piegare la schiena ai compromessi.
Non è un caso che gli artigiani siano
la categoria più rappresentata fra i
condannati dall’Inquisizione; fosse
vissuto quattrocento anni fa, Riccardo
sarebbe stato fra di loro.
Gian Paolo Gri
La selezione delle immagini
di Riccardo Toffoletti
è stata fatta da Marì Domini
e Antonio Gobetti